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Reddito d’impresa o di lavoro autonomo: se la discriminante diventa l’organizzazione…

Non c’è pace per i redditi delle STP e delle STA!

Proprio quando ogni diatriba sembrava sopita con l’emanazione della risoluzione 35/E/2018 dell’Agenzia delle Entrate che – sconfessando il proprio precedente indirizzo espresso nella risoluzione n. 118/E/2003 – qualificava come reddito di impresa quello prodotto dalla società, la Cassazione Civile interviene a gamba tesa affermandone la natura di “reddito di lavoro autonomo”.

Ciò che stupisce, preliminarmente, è che tale affermazione non proviene invero dalla Sezione Tributaria del supremo Collegio, ma dalle sezione Terza Civile, chiamata a giudicare una fattispecie essenzialmente banale: l’opposizione ad un decreto ingiuntivo per 508,90€ vinta dalla Compagnia Italiana Assicurazioni Spa davanti al Tribunale di Locri, che dichiarava non dovuta la somma ad uno studio legale organizzato in forma di STP a responsabilità limitata, trattenuta a titolo di ritenuta d’acconto su una fattura.

La sentenza del Tribunale calabrese viene impugnata per cassazione dallo studio legale che, citando testualmente la risoluzione n. 35 del 07 maggio 2018 dell’Agenzia delle Entrate, sostiene che l’esercizio della professione forense svolta in forma societaria costituisce attività di impresa, in quanto risulta determinante il fatto di operare in una veste giuridica societaria, piuttosto che lo svolgimento di un’attività professionale.

La Cassazione, al pari del giudice d’appello, è di diverso avviso.

Il Collegio parte dalla constatazione che non esista in materia una espressa previsione normativa che qualifichi, a fini fiscali, la natura del reddito prodotto dalle società tra professionisti e che la soluzione del quesito giuridico dipenda essenzialmente dalla scelta di privilegiare l’aspetto soggettivo (ossia la natura societaria del soggetto che produce il reddito) o quello oggettivo (ossia il carattere dell’attività concretamente svolta dalla società).

Dopo aver pertanto biasimato l’ “affastellarsi disordinato e contraddittorio di risoluzioni dell’Agenzia delle Entrate”, il Collegio prende le redini del ragionamento ed osserva:

  1. Che dal punto di vista soggettivo posto che si ammette che i professionisti possano organizzarsi in società commerciali, è pacifico che le società commerciali producano reddito di impresa;
  2. Che tuttavia, se si guarda in concreto l’attività svolta da una STP non può dubitarsi che ai sensi dell’art. 10 comma 2 Legge 183/2011 (ma anche ai sensi dell’art. 4 bis della successiva Legge 247/2012) l’attività della STP o della STA sia essenzialmente quella tipica della professione ordinistica dei suoi componenti.

Da un lato infatti la qualifica di STP può essere assunta unicamente dalle società il cui statuto preveda l’esercizio in via esclusiva dell’attività professionale da parte dei soci; dall’altro, per quanto attiene più propriamente alla STA, deve escludersi la possibilità di esercizio di attività commerciale, stante l’obbligo di iscrizione all’ordine ed il divieto deontologico di esercitare attività commerciale per gli avvocati. 

Sotto tale profilo, pertanto, è evidente, agli occhi della Cassazione, che il reddito prodotto dalla società in questione non sia propriamente – o quantomeno non sia necessariamente – “di impresa” (al pari delle altre società commerciali), ma possa essere qualificato in termini di lavoro autonomo.

E per sostenere la tesi, la Cassazione si lancia in un parallelismo fra la produzione di reddito da lavoro autonomo e l’assenza di organizzazione rilevante a fini IRAP.

In sostanza afferma che il reddito prodotto dalla società fra professionisti è tale solo se si riesca a provare che l’attività professionale tipica venga svolta in concreto un’organizzazione di mezzi, lavoro e risorse che consentono classificarla nel concetto di “impresa” ai sensi dell’art. 2082 e 2238 cod. civ.

Nel caso di specie – conclude la Corte – non avendo la STP dimostrato (forse ci sarebbe da dire, chi glielo aveva chiesto?) di possedere un’autonoma organizzazione “ulteriore” rispetto alla somma delle attività professionali tipiche dei suoi soci che la potesse qualificare come “impresa”, non ha provato di essere produttrice di reddito di impresa e quindi resta assoggettata alla disciplina del lavoro autonomo.

Si sostiene infatti che: “perché in una società tra professionisti possa aversi attività imprenditoriale, occorre anche una attività diversa e ulteriore rispetto a quella professionale, per cui il conferimento dell’apporto intellettuale si configura solo come una delle componenti dell’organizzazione, e ciò in quanto l’attività autonomamente organizzata non potrebbe identificarsi in quella tipica svolta dal professionista intellettuale, connotata dal carattere della personalità (art. 2232 cod. civ.), presupponendo quel profilo di autonoma organizzazione di cui agli artt. 2082 e 2238 cod. civ.

D’altra parte, proprio l’elemento della organizzazione è il medesimo che consente di qualificare come produttivo di reddito d’impresa la prestazione di servizi, visto che ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 546, l’esigibilità dell’imposta regionale sulle attività produttive presuppone l’esercizio abituale di un’attività “autonomamente organizzata diretta alla produzione o allo scambio di beni ovvero alla prestazione di servizi”.

E a sostegno della propria argomentazione cita anche la Corte Costituzionale n. 156 del 21/05/2001: “mentre l’elemento organizzativo è connaturato alla nozione stessa di impresa, altrettanto non può dirsi per quanto riguarda l’attività di lavoro autonomo, ancorché svolta con carattere di abitualità, nel senso che è possibile ipotizzare un’attività professionale svolta in assenza di organizzazione di capitali o lavoro altrui”. Così confermando che, “in presenza di svolgimento di attività professionale di lavoro autonomo”, ai fini della qualificazione del reddito dalla stessa prodotto, “occorre verificare se questa venga svolta in presenza o assenza di organizzazione”.

E chiosa: “In conclusione, similmente a quanto accade ai fini del riconoscimento della debenza dell’IRAP da parte dei liberi professionisti, da escludersi “nel caso di una attività professionale che fosse svolta in assenza di elementi di organizzazione”, risultando, in tal caso, “mancante il presupposto stesso” della pretesa impositiva (così, tra le prime, Cass. Sez. 5, sent. 2 aprile 2007, n. 8172, non massimata, in senso analogo, tra le più recenti, Cass. Sez. 5, ord. 2 aprile 2020, n. 7652, Rv. 657537-01), anche ai fini dell’applicazione della ritenuta di acconto alle società tra professionisti, la qualificazione come reddito di impresa, del reddito dalle stesse prodotte, presuppone che le prestazioni di lavoro autonomo costituiscano elemento di un’attività organizzata in forma d’impresa, risultando, così, inserite in strutture che sono frutto dell’impiego del capitale, ovvero che il lavoro del professionista ed il capitale concorrano entrambi nella produzione del reddito, sicché quest’ultimo non potrà ritenersi derivante dal solo lavoro, ma dall’intera struttura imprenditoriale.”.

Seguendo il ragionamento della Cassazione in sostanza si aprono scenari decisamente interessanti ed inattesi anche in materia di IRAP.

Sembrerebbe quasi che non sia più l’attività esercitata e neppure la forma giuridica adottata che rilevi ai fini della produzione del reddito di impresa e dell’IRAP, ma unicamente l’esistenza di un’organizzazione che conferisca all’attività professionale un quid pluris e la elevi al rango di “impresa”.

Le conclusioni, che lasciamo al lettore, sono ovviamente assai preoccupanti, perché se il ragionamento è corretto in un senso, deve esserlo anche in senso contrario!

Se non è detto che la società produca reddito di impresa, laddove manchi un’organizzazione di fattori produttivi ulteriori rispetto alla mera prestazione professionale, allora dovrebbe anche affermarsi che, specularmente, laddove tale organizzazione vi sia, anche l’associazione professionale, la società di persone e (paradossalmente) il singolo professionista, potrebbero divenire produttori di reddito di impresa!

Portando alle estreme conseguenze il principio, infatti, uno studio legale con trenta soci, organizzato in forma di SPA, in cui tutti gli azionisti sono avvocati che lavorano in maniera autonoma e non coordinata tra di loro, coadiuvati di una sola segretaria che apre la porta e risponde al telefono, dovrebbe in concreto considerarsi privo di “organizzazione”, produrre un reddito da lavoro autonomo e andare esente da imposizione IRAP.

Di converso, lo studio legale composto da un solo avvocato, che lavora ai recuperi credito seriali di una qualche società di cartolarizzazione, valendosi dell’opera di sette segretarie, due praticanti, dieci computer e quattro stampanti dovrebbe ritenersi a buon titolo “organizzato” come un’impresa e, per conseguenza, scontare certamente l’IRAP, ma (a quel punto) potrebbe produrre a tutti gli effetti reddito di impresa!

E’ auspicabile per il prossimo futuro che la Cassazione, re melius perpensa, opti per l’adozione di un criterio soggettivo al fine di dotare gli operatori di un criterio certo e non del aleatorio ai limiti dell’arbitrarietà per stabilire che tipo di reddito produce un contribuente.

Ed è parimenti auspicabile che, con altrettanta celerità, anche il legislatore dica una parola se non definitiva almeno chiara sul tema, magari abolendo la cavillosa distinzione fra due tipologie di reddito, che, oltre ad apparire alquanto anacronistica, alimenta il sospetto che il suo tramandarsi sia il mero frutto di un gretto interesse erariale ad un più rapido incasso.

Ma ovviamente è solo un sospetto…

Avv. Alberto Michelis

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