Il Trust è la risposta giusta (se la domanda non è sbagliata!)

Il tema della protezione patrimoniale è argomento da prima pagina in tempo di crisi e numerosi sono i convegni e gli incontri di approfondimento che ne trattano, sia al livello professionale che a livello divulgativo.

Abitualmente, quando si parla di “protezione patrimoniale”, si individuano una serie di strumenti, dai più banali ai più esotici e sofisticati, che consentono di mettere al riparo il patrimonio dai rischi di un passaggio generazionale o dai creditori (incluso Il Creditore, per eccellenza, ossia la tanto vituperata Equitalia, ora Agenzia delle Entrate Riscossione): si passano allora in rassegna strumenti assicurativi, gestioni fiduciarie, fondi patrimoniali, sino a varcare i confini nazionali ed evocare SOPARFI lussemburghesi e nominee company in ameni lidi caraibici.

Strumenti, sia chiaro, non tutti e non sempre leciti, e, in molti casi, neppure così efficaci come si vorrebbe far credere…

Ma ad un certo punto poi, nell’esame di questo strumentario da apprendisti stregoni, s’ode risuonare una parola che solleva un alone di mistero nell’uditorio: “TRUST”. 

L’alone di mistero si dissolve quasi subito, però, perché l’oratore di turno quasi certamente vi dirà che il trust è qualcosa di complesso, di riservato a qualche élite esoterica, che è “malvisto” dalla legge e dalla magistratura italiana e, soprattutto – argomento tranchant che azzera immediatamente l’interesse dell’uditorio – che costa un sacco di soldi.

In queste poche righe, senza pretesa di esaustività, vorrei semplicemente “smontare” quelle che sono pure superstizioni in ordine al Trust e sostenere che si tratta di un istituto per nulla complesso, estremamente duttile, perfettamente compatibile con la normativa e con la giurisprudenza  ed anzi talora impiegato per dare soluzione a controversie particolarmente spinose (ad esempio in materia di separazioni “litigiose”) ed infine, non costoso quanto si pensi (e con questa chiosa, spero di aver ravvivato l’interesse del lettore…).

Ma cos’è un Trust?

La convenzione dell’Aja 01.07.1985 sul riconoscimento del Trust non dà una vera e propria definizione dell’istituto, ma si limita a dire che per “trust” si devono intendere “i rapporti giuridici istituiti da una persona, il costituente – con atto tra vivi o mortis causa – qualora dei beni siano stati posti sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un beneficiario o per un fine specifico.”

La convenzione insomma, non definisce Trust, ma, nell’efficace battuta dell’amico Giuseppe Lepore, ne codifica la “ricetta”.

Si ha dunque un trust quando, per effetto di un atto tra vivi o mortis causa, il costituente (o “disponente” o “settlor”)  si spoglia di taluni beni e li pone sotto il controllo di un trustee che ne assume la gestione nell’interesse di uno o più beneficiari o per perseguire un fine specificamente predeterminato.

Sempre nella definizione convenzionale, il trust presenta le seguenti caratteristiche:

a) i beni del trust costituiscono una massa distinta e non fanno parte del patrimonio del trustee;

b) i beni del trust sono intestati a nome del trustee o di un’altra persona per conto del trustee;

c) il trustee è investito del potere e onerato dell’obbligo, di cui deve rendere conto, di amministrare, gestire o disporre beni secondo i termini del trust e le norme particolari impostegli dalla legge.

Non è un caso se, poco sopra, ho sottolineato il carattere di spoliazione dalla proprietà dei beni: come acutamente è stato osservato, il modo più sicuro per proteggere il patrimonio è… (paradossalmente) spogliarsene!

In questo senso si può dire che il trust è effettivamente tale solo ed esclusivamente se la spoliazione è effettiva ossia se il disponente perde effettivamente la proprietà dei beni che vengono conferiti: in tutti i casi in cui la spoliazione, nei fatti, non ci sia o il disponente mantenga in ultima istanza una forma di controllo sui medesimi o sull’attività del trustee il trust non è genuino, ma fittizio.

L’effetto della spoliazione è dunque la creazione di un patrimonio separato e distinto da quello personale del disponente, ma anche da quello personale del trustee e da quello personale dei beneficiari: una massa, insomma, che risponde solo dei debiti propri e non di quelli di chi l’ha conferita, di chi la amministra o di chi ne beneficia (e magari un giorno, alla scadenza, ne diverrà anche pieno proprietario).

Un patrimonio autonomo, gestito dunque da un trustee nell’ambito di regole precise e prestabilite, magari sotto il controllo di un guardiano (o “protector”) con lo scopo di assicurare il perseguimento di un obiettivo o di assicurare determinati benefici a taluni soggetti, determinati o determinabili.

In questi anni la giurisprudenza ci ha consegnato un notevole campionario di declaratorie “contrarie” al trust, ma a ben guardare, tali pronunce non sono affatto sintomo di un’avversione giuridico-culturale all’istituto, bensì un tentativo di distinguere… il grano del trust dal loglio dei sotterfugi.

In molti casi, analizzando in concreto la struttura posta in essere dal disponente, le corti di legittimità o di merito  hanno concluso che quello che avevano di fronte semplicemente… non era un trust: dai casi eclatanti di “trust” in cui il disponente si riservava un diritto di “revoca” del conferimento (!) a “trust” fittiziamente autodichiarati senza che vi fosse tuttavia alcuna effettiva separazione dei patrimoni, a “trust” in cui il disponente si riservava pesanti poteri di ingerenza sulla gestione del trustee.

Il trust, dunque, diventa uno strumento di vera ed efficace protezione patrimoniale solo se vi è effettiva separazione e traslazione del controllo sui beni che vengono conferiti dal titolare originario al trustee, che avrà l’onere di amministrarli in modo indipendente per il perseguimento dello scopo per cui il trust è stato costituito o nell’interesse dei beneficiari in esso indicati (in modo specifico, nel trust “trasparente” o in modo aspecifico o indiretto, nel trust “opaco”).

Fissati questi principi – che sono un po’ il contenitore del trust – il contenuto è tutto da “inventare”, ovviamente nel rispetto delle norme imperative e della legge regolatrice.

In ciò risiede l’estrema duttilità dell’istituto: un trust può servire per risolvere una crisi familiare in sede di divorzio, può consentire, nell’ambito di una procedura fallimentare, di valorizzare beni che, altrimenti, sarebbero destinati ad una liquidazione poco vantaggiosa per le stesse ragioni dei creditori, può risolvere un problema di passaggio generazionale di un’impresa o di un patrimonio, può garantire una serena vecchiaia eliminando ogni preoccupazione circa la gestione del patrimonio e la devoluzione dei beni post mortem ecc.

Il trust  dunque, può essere impiegato anche per dare soluzione ad una pluralità problematiche pratiche e non solo per la gestione di patrimoni di eccezionale importanza: è uno strumento, insomma, che si presta altrettanto bene alla gestione  di partecipazioni societarie a livello internazionale, quanto alla gestione di patrimoni piccoli o medi, di persone “normali”.

L’importanza del patrimonio, naturalmente, ha un riflesso diretto anche sui costi: maggiore sarà l’entità dei beni, maggiore l’attività richiesta per la loro amministrazione e maggiore sarà anche il “costo” delle prestazioni del trustee.

Ma, correlativamente, un patrimonio non particolarmente consistente, la cui gestione si risolva – ad esempio – nella locazione di immobili o di investimenti a lungo termine che non necessitano di un quotidiano impegno da parte del trustee potrebbe “costare” anche pochissime migliaia di euro l’anno: dipende ovviamente, dal Trustee, che è comunque opportuno sia sempre una persona giuridica (le persone fisiche, ahimè, hanno la brutta abitudine di decedere, prima o poi…) e possa vantare un’esperienza comprovata nel settore.

Il trust, dunque, è la risposta lecita ed efficace a molti problemi di protezione patrimoniale.

Lo è, però, a condizione che la domanda sia corretta: quando si pensa al trust come via di fuga dall’inseguimento del fisco o dei creditori, o come strumento per raggiungere secondi fini, più o meno leciti, purtroppo il problema è mal posto, e quel simulacro di “trust” che qualche professionista vi consiglierà di mettere in atto, statene certi, non proteggerà né il vostro patrimonio, né voi…

Avv. Alberto Michelis

Leave a Comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.