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Gli effetti penali degli istituti deflattivi del contenzioso tributario

La scelta del “doppio binario” nel D. Lgs. 74/2000

Il sistema sanzionatorio italiano in ambito tributario è informato al principio del cd. “doppio binario” amministrativo/penale: ciò significa, in estrema sintesi, che, laddove si configuri una violazione tributaria tanto grave da integrare anche gli estremi del reato, i due procedimenti amministrativo e penale, vivono di vita propria senza (teoricamente) influenzarsi a vicenda.

Si tratta di una scelta legislativa operata con il D. Lgs. 74/2000 che ha completamente riformato il sistema disegnato dalla precedente Legge 516/82, ed eliminato la cd. “pregiudiziale tributaria” in forza della quale il procedimento penale doveva necessariamente attendere l’esito del contenzioso tributario. Una scelta che peraltro, nonostante le numerose critiche mosse dalla dottrina e dagli operatori, è stata sostanzialmente confermata anche a seguito della recente “revisione” del sistema operata  D. Lgs. 158/2015, attuativo della delega fiscale ed in vigore dal 22.10.2015.

In virtù di tale principio il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi atti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la definizione anche del procedimento amministrativo.

La conseguenza di una tale impostazione comporta evidentemente che in ipotesi, per la medesima fattispecie (ad esempio un’infedele dichiarazione sopra soglia di punibilità), il contribuente può essere assolto in sede penale e “condannato” in sede tributaria. 

E, di converso, nell’ipotesi in cui il contribuente definisca in via stragiudiziale, la propria posizione fiscale, accedendo ai numerosi istituti preventivi o deflattivi del contenzioso tributario (quali ad esempio ravvedimento, adesione, mediazione, conciliazione giudiziale e stragiudiziale) non è affatto inibita la prosecuzione del processo penale che può portare anche ad una condanna.

La rigidità del doppio binario – per quanto talora stemperata in concreto nelle aule penali ove gli elementi di garanzia della difesa sono certamente più rilevanti che davanti alle commissioni tributarie – ha visto proprio con la riforma del 2015 un notevole ammorbidimento, quantomeno in relazione a talune fattispecie di reato, con previsione di benefici sanzionatori o addirittura dell’estinzione del reato a seguito di pagamento del debito tributario.

Nello stesso filone si è poi mossa la riforma operata dal DL n. 124/2019 che pur in un contesto di generale maggior severità punitiva per le fattispecie di reato previste dal D. Lgs. 74/2000, ha comunque implementato gli strumenti di mitigazione della pena per pagamento del debito tributario anche a seguito di accesso agli istituti deflattivi.

Gli istituti deflattivi nel processo penale: il “nuovo” articolo 13 e l’art. 13 bis.

Il vigente art. 13 D. Lgs. 74/2000 prevede pertanto due ipotesi.

La prima riguarda i soli reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, ossia  i reati di omesso versamento delle ritenute e dell’IVA (artt. 10-bis e 10-ter), nonché per il reato di indebite compensazioni con crediti non spettanti (art. 10-quater, co. 1).

Tali condotte delittuose non sono punibili se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, comprese sanzioni amministrative e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, nonché del ravvedimento operoso.

La seconda (frutto della riforma del 2019) riguarda invece i reati di dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3) e i reati di dichiarazione infedele (art. 4)  o omessa (art. 5): in questo caso la non sono punibilità viene accordata solo se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, e comunque a condizione che il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.

La permeabilità del processo penale agli istituti deflattivi del binario “amministrativo”, peraltro, si manifesta anche con il successivo art. 13 bis del D. Lgs. 74/2000 che disciplina in modo premiale l’integrale pagamento di imposte, sanzioni ed interessi anche a seguito di istituti deflattivi con una diminuzione delle pene fino alla metà, la non applicazione delle pene accessorie di cui all’art. 12 e con la possibilità di accedere al patteggiamento ex art. 444 c.p.p.

Criticità ed incoerenze del sistema

Posto che il meccanismo premiale ovviamente interessa solo quei reati che presuppongano un’imposta da pagare (ne restano esclusi quindi l’emissione di fatture false e la distruzione o l’occultamento di scritture contabili), il sistema così delineato tuttavia non è immune da alcune criticità “pratiche” che, a giudizio di chi scrive, sembrano in contrasto con la finalità dichiarata della norma (= se paghi tutto eviti la condanna!)

La prima è costituita dal fatto che per accedere ai benefici premiali degli artt. 13 e 13 bis il pagamento deve intervenire entro l’apertura del dibattimento di primo grado: un termine che, molto spesso, si verifica troppo “breve”.

E’ pur vero che l’ultimo comma dell’art. 13, anche ai fini dell’applicabilità dell’articolo 13-bis, ammette che, se prima della dichiarazione di apertura del dibattimento il debito tributario è in fase di estinzione mediante rateizzazione, il Giudice concede un termine di tre mesi (prorogabile una sola volta per ulteriori tre mesi) per il pagamento del debito residuo; ma anche in tale ipotesi in presenza di importi elevati – che è la norma nel penale tributario! – spesso la dilazione temporale non è sufficiente e comunque non è neppure coordinata con gli istituti deflattivi a cui fa riferimento!

Ed infatti, come noto, in caso di accordo in adesione, il debito tributario è rateizzabile in otto o dodici rate trimestrali a seconda dell’importo (ossia rispettivamente in due o tre anni), mentre nel caso di avviso bonario addirittura in 20 rate trimestrali (ossia in cinque anni), tempi che in molti casi – specie per i casi di omesso versamento che non necessitano un’istruttoria particolarmente complessa – sono troppo lunghi rispetto alla fissazione della prima udienza dibattimentale.

Con la conseguenza che, nonostante il contribuente abbia concluso l’accorso o accolto l’invito bonario, può ritrovarsi condannato penalmente se il pagamento di tutte le rate dovesse avvenire nei termini concordati con l’Agenzia delle Entrate, ma oltre l’apertura del dibattimento (ovvero oltre il termine di 3+3 mesi assegnato dal giudice).

Un’ulteriore criticità si ravvisa poi nel caso in cui il credito erariale sia passato in riscossione.

Al di la del fatto che in sede di riscossione il contribuente potrebbe beneficiare di termini di rateizzazione anche molto più elevati di quelli concessi dall’Agenzia delle Entrate (rispettivamente 72 rate/6 anni nel “piano ordinario” per i debiti inferiori a 60000,00€ e 120 rate/10 anni con un “piano straordinario” per debiti superiori, senza contare le possibilità di proroga!), il problema è che in sede di riscossione il debito non è più costituito solo da “imposte, sanzioni ed interessi” all’integrale pagamento dei quali si producono i benefici descritti.

Come è noto infatti, l’Agente della Riscossione applica, sull’importo affidato dall’ente impositore, i cd. “oneri di riscossione” (che dopo il 31/12/2015 hanno sostituito il famigerato “aggio”) che, dopo il 60° giorno dalla notifica della cartella corrispondono al 6% delle somme riscosse.

Quando si effettua un pagamento all’Agente della Riscossione il contribuente di fatto non può imputare a suo piacimento il versamento effettuato destinandolo a “tributo” o a “sanzione” o a “interessi”, ma si vede automaticamente imputato l’importo versato dallo stesso Agente della Riscossione che lo “spalma” sulle diverse voci, riservandosi comunque il 6% a titolo di oneri di riscossione.

La conseguenza di tale imputazione automatica è evidente: per saldare il conto con l’erario a titolo di imposte, sanzioni ed interessi non mi basta più pagare la somma risultante dalla somma di tali voci (che pure sono quelle al cui saldo integrale la legge ricollega i benefici!), ma dovrò pagare (anche) gli oneri di riscossione con un aggravio di spesa stimabile nel 6%.

Il tutto, naturalmente, con gravi problemi di coordinamento normativo, perché anche se l’art. 13 parla di “pagamento integrale”, lo limita sempre e solo ad imposte, sanzioni ed interessi, senza mai menzionare né l’aggio né gli oneri di riscossione, il cui pagamento, pertanto, non dovrebbe essere ritenuto rilevate – a stretto rigore – per ottenere il beneficio.

Ma nella misura in cui, tuttavia, non vi è possibilità per il contribuente di imputare il pagamento alle voci di propria scelta, accade che, di fatto, il pagamento integrale non sarà mai possibile senza corrispondere anche gli oneri di riscossione.

Occasioni mancate e spunti di riforma

La concreta mancanza di un raccordo fra la norma premiale penale e il meccanismo di funzionamento degli istituti deflattivi che la stessa richiama costituisce il principale limite delle “mini” riforme del 2015 e del 2019  e dimostra la sostanziale pavidità di un legislatore che ha perso una preziosa occasione per una riforma organica del sistema sanzionatorio tributario, sia amministrativo che penale, magari ispirata ai principi affermati in più occasioni dalla Corte Europea dei Diritti Umani che, come noto, mal sopporta la sottigliezza lessicale fra “sanzione amministrativa” e “sanzione penale”, valorizzandone l’identico contenuto punitivo e specialpreventivo.

Con un po’ più di coraggio si sarebbe potuto stabilire il principio dell’unicità dell’istruttoria sul “medesimo fatto” e del coordinamento della risposta sanzionatoria che in tutte le sentenze in tema di “ne bis in idem” (inclusa A.e B. contro Norvegia) sono stati costantemente ribaditi: ma, come ci insegna don Abbondio di fronte al Cardinale Federico Borromeo “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”…

Avv. Alberto Michelis

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