Omesso versamento IVA: la sanzione pecuniaria esclude il penale

Il principio del “ne bis in idem” è uno dei cardini del nostro sistema processuale e costituisce uno dei fondamenti di tutti gli ordinamenti penali a livello internazionale, al punto da essere considerato uno dei principi fondamentali anche dalla Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo.

Il significato ultimo del principio è che un soggetto non può essere processato o punito due volte per lo stesso fatto materiale.

Un principio antico, dunque, che oggi viene declinato in un senso del tutto nuovo ed originale da una recente sentenza del Tribunale di Asti, destinata di certo a far discutere e ad aprire nuove prospettive nella punizione di taluni reati, specie quelli tributari.

Si tratta della Sentenza del Tribunale Penale di Asti n. 717/2015 che, senza mezzi termini, ha stabilito non doversi procedere nell’ambito di un processo penale per violazione dell’art. 5 D. Lgs. 274/2000 in relazione ad un’evasione di IVA della ragguardevole somma di € 494474,00, risalente all’anno 2008.

La decisione, per quanto clamorosa, non ha in sé alcunché di scandaloso ed anzi è l’ovvio risultato di una corretta applicazione dei principi già stabiliti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, in numerose sentenze fra le quali la Sentenza NYKANEN v. FINLAND e la più recente GRANDE STEVENS ET AUTRES v. ITALIE.

Il punto focale di entrambe le sentenze è sempre lo stesso: esistono negli ordinamenti nazionali alcune sanzioni che, per quanto non definite “penali” hanno un contenuto ed una funzione essenzialmente punitivi.

Laddove una di queste sanzioni sia prevista da un’ordinamento quale punizione di un determinato comportamento, l’ordinamento non può consentire che per lo stesso fatto sia prevista anche una diversa sanzione qualificata “penale”, salvo che non stabilisca, fra le due un criterio di alternatività.

La Corte EDU ha stabilito nella celebre Sentenza ENGEL AND OTHERS v. THE NETHERLANDS del 1976 un criterio interpretativo per stabilire se una sanzione prevista da un ordinamento abbia natura oggettivamente penale.

Tali parametri, meglio noti come “Engels criteria”, che stabiliscono che una norma debba considerarsi di natura penale:

1. Legal classification criterium: se  la legge nazionale definisce la norma come “penale” e la classifica nell’ambito del proprio sistema penale;

2. “Very nature of the offence” criterium: se la norma, benché non qualificata come “penale” dalla legge nazionale, abbia una “reale natura penale“;

3. “Degree of severity” criterium: se la norma, benché non qualificata come “penale”, abbia un grado elevato di severità della pena che il contravventore rischia di vedersi applicata in caso di infrazione.

Fatto salvo il primo criterio – la cui evidenza è lapalissiana – occorre notare che premesso che il secondo e il terzo criterio menzionati sono tra loro alternativi e non cumulativi.

Nel caso Nykanen v. Finland sopra menzionato la Corte ha affermato la natura (la “vera natura”) penale delle sovrattasse applicate secondo la legge nazionale finlandese che, per quanto non classificate come “penali” dal diritto interno:

a) sono previste da una norma di legge generale, che può essere indistintamente applicata a tutti i contribuenti;

b) non hanno una funzione compensativa del danno causato all’erario;

c) hanno una funzione chiaramente punitiva e deterrente (ossia, realizzano una funzione punitiva e specialpreventiva che è intrinsecamente  propria della sanzione penale).

Tali principi di derivazione Convenzionale, si sono in passato affacciati timidamente anche nell’ambito nazionale, ma solo in oggi vengono portati all’onore delle cronache giudiziarie in modo così dirompente.

Le conclusioni – condivisibili – del Tribunale di Asti non fanno che applicare in modo immediato e diretto, e con dovizia di argomentazione, ciò che nella giurisprudenza della CEDU è già da tempo un criterio consolidato: la normativa italiana prevede una sanzione amministrativa talmente elevata per le violazioni tributarie, da avere una natura intrinsecamente penale.

Ne consegue che, laddove lo Stato decida di percorrere la via dell’applicazione della sanzione amministrativa (rectius “penale”!), richiedendo il pagamento, a tale titolo di una somma pari dal 100% al 200% dell’imposta evasa, non può poi sottoporre il medesimo soggetto, per lo stesso fatto, ad un procedimento penale ai fini dell’applicazione di un’altra sanzione questa volta definita dall’ordinamento “penale”.

La sentenza del Tribunale di Asti è dunque destinata ad avere grande incidenza su tutti i procedimenti penali pendenti, basati su fatti che siano stati, in passato, già oggetto di applicazione di una sanzione amministrativa, anche perché denota un estremo “coraggio” interpretativo dapprima nel criticare talune posizioni espresse dalla Cassazione in alcune sentenze rese a Sezioni Unite (e poi sconfessate in altre…) alla luce dei principi espressi dalla CEDU, e quindi nell’applicare direttamente l’art. 649 c.p.p. sul rilievo della mera sussistenza di una sanzione (amministrativa) già applicata all’imputato.

Tale ultimo rilievo appare di particolare interesse perché anticipa di molto, nel diritto interno, il momento in cui si può ritenere violato il principio del ne bis in idem: se infatti nella giurisprudenza della CEDU il principio di intende violato solo in presenza di un provvedimento definitivo ed irrevocabile di applicazione della sanzione amministrativa (sia esso un atto non impugnato, una sentenza non appellata o comunque passata in giudicato), sulla base di un’acuta interpretazione della giurisprudenza di Cassazione in relazione all’art. 649 c.p.p. e all’art. 12 delle preleggi, nell’ordinamento italiano sarebbe sufficiente anche solo una sentenza non irrevocabile per consentire la pronuncia di non doversi procedere ai sensi dell’art. 649 c.p.p.

Il dado è tratto: ora vedremo come nella prassi dei Tribunali troveranno applicazione i suddetti principi.

Avv. Alberto Michelis

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